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Giacomo Leopardi
(1798-1837)




Signore e signori:
ecco un classico della letteratura italiana di cui tutti abbiamo memoria scolastica. Non tutti ricorderanno però che in questa poesia lunga e apparentemente noiosa (qui ne proponiamo solo un estratto) c'erano alcune considerazioni che forse allora non ci destavano lo stesso interesse. Leopardi infatti descriveva a suo modo l'attività vulcanica del Vesuvio:



LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO
Qui sull'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor nè fiore,
Tuoi crespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti.

(...)

Questi campi sparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiar di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi dei potenti
Gradito ospizio; e fur città famose,
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve;
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola.

(...)

Come d'arbor cadendo un piccol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze ch'adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia diserta e copre
In un punto; così dall'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scaglia al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli,
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infuocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
e infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica (...)
La poesia è dedicata alla ginestra, unica pianta felice di crescere sui versanti aridi del formidabile "monte sterminatore" Vesuvio.

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C'è quindi una descrizione della distesa lavica arida e rocciosa che, sdrucciolevole, "suona sotto i passi del viandante". Un ambiente amato dai serpenti dove soltanto i conigli trovano rifugio nelle loro "cavernose tane". Un tempo però in questo stesso luogo vi erano villaggi, campi fertili, pascoli e giardini. Qui sorgevano città famose e ricchi palazzi, preferita meta di soggiorno delle più importanti personalità. Tutto ciò fu distrutto rapidamente dalla bocca di fuoco del Vesuvio con "i suoi torrenti". Ora intorno tutto è deserto e rovina, ravvivato solo dal profumo della ginestra.




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Qui abbiamo un'efficace similitudine. Si immagina una piccola mela che giunta a maturazione cade dal suo ramo. Questo evento del tutto naturale si rivela però fatale per un formicaio che si trovava proprio lì sotto (dolci alberghi cavati in molle gleba). Tutta la comunità ed il suo operato verranno travolti in un istante.
Il medesimo destino hanno subìto le città che sorgevano sul mare, ai piedi del monte. Il Vesuvio, dal suo "utero tonante", causò "notte e rovina" (attività piroclastica) e un'immensa piena di "bollenti ruscelli" e "massi liquefatti" che tutto travolse in pochi istanti. Ora il monte copre tutto e di sopra pascolano soltanto le capre.

La conclusione è che la natura non ha mostrato nei confronti dell'uomo più rispetto o attenzione di quanto non ne abbia per le formiche.

(A.N.)





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